giovedì 13 maggio 2010

Sì, è tornato: IRON MAN 2



Di: Jon Favreau.
Con: Robert Downey Jr., Scarlett Johansson, Gwyneth Paltrow, Samuel Jackson, Michey Rourke.
Genere: Fantasy (124’).
Commento: Il primo “Iron Man”, inutile negarlo, era un’altra cosa. Ma nel periodo in cui il cinema prende i sequel, soprattutto dei fumetti, e si diverte, salvo rari casi, a darli in pasto alla critica più famelica, il fatto che la seconda puntata di Robert Downey Jr. e delle sue protesi non faccia troppo rimpiangere l’episodio di tre anni fa può già essere considerato un successo. Nuovi personaggi, nuova azione, adrenalina all’ennesima potenza: del resto le scene cardine si condiscono con motori e meccanica velocissima, una sorta di Sonic trapiantata sul grande schermo che s’appresta, tra qualche mese, ad accogliere qualcosa di simile (sebbene molto più anni Ottanta) con Tron Legacy. Restiamo sul pezzo però: perché Iron Man 2 funziona, nonostante il gran fracasso, la banalità dell’intreccio e il conglomerato di villains o contro-protagonisti, che ingolfa solitamente un prodotto fumettoso di questo tipo? Perché concettualmente la creatura di Jon Favreau (che ha curato il primo film e, intelligentemente non ha fatto altro che ricalcarne le linee guida nel segno della continuità) è nata per vivere velocemente. I dialoghi non sono mai profondi, ma scelgono di essere brillanti, in modo da divertire e lasciare qualcosa: non c’è vacuità, dunque, soltanto tanta frenesia che, al termine del frullatone, consegna al pubblico, se non pensieri filosofici sul rapporto uomo-macchina, quanto meno tanto divertimento e ironia. Per questo l’eroe Marvel è nato sul grande schermo e questa mission riesce a mantenere: i nemici entrano subito in scena, senza perdite di tempo (attenzione all’incipit, che fa ripartire la seconda parte esattamente da dove terminava il primo film, solo da diversa prospettiva), l’intreccio si nutre di una clorofilla che è il caos (idealmente musicato dagli AC/DC), ben dipanato perché rimane superficiale. Il personaggio di Nick Fury è indubbiamente affascinante, promette nuove storie correlate e soprattutto svela la seconda grande arma di questa serie: il carisma dei suoi protagonisti. Su tutti Robert Downey Jr. e il cattivo perfetto Mickey Rourke: talmente “in ruolo” da apparire nati proprio per questa pellicola.
Da non perdere: Il primo incontro ravvicinato tra Iron Man e Whiplash, che non a caso ha nutrito pesantemente il trailer del film. Altissima tensione, in tutti i sensi.

VOTO: 7,5 – RESISTENTE

MATRIMONI E ALTRI DISASTRI... non è un disastro!



Di: Nina Di Majo.
Con: Margherita Buy, Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Francesca Inauid.
Genere: Commedia (102’)
Commento: Quasi una versione filmica di “Quello che le donne non dicono” della Mannoia (specie osservando la prima donna del racconto), o, se preferite, una pellicola decisamente al femminile, partorita, scritta, studiata e interpretata in esclusiva dal gentil sesso. Ben venga tuttavia questa forma di “razzismo sessuale” se serve poi a produrre qualcosa che forse non è del tutto fresco, eppure sa evitare il congelamento di certi stereotipi all’italiana. Matrimoni e altri disastri non profuma certo di lavanda, però sa evitare la muffa di alcune storie da dé jà vu e sa basare il suo successo e l’obiettivo a metà centrato su due paradossi di fondo: intanto, incentra una commedia “collettiva” (il matrimonio, banalmente, si fa in due, senza contare ospiti, genitori, testimoni e quant’altro) sulla vertiginosa prova di Margherita Buy, in assoluto il vero portento della pellicola. Poi si rifiuta finalmente di scrivere un finale concatenato e incatenato, evitando di chiudere alcuni rivoli che sfociano dalla trama principale: non tutto deve essere giustificato dietro ad una moraletta a mo’ di chiosa, qualche peccato può rimanere segregato e la felicità, in fondo, non ha bisogno di una logica chiusura. Di sicuro il cambiamento dei personaggi (generalmente in meglio per i buoni, verso l’oscurantismo per i cattivi) viene mantenuto da capo a piedi, ma sprizza un non so che di sincero in quell’ammiccamento continuo ai vizi e alle storture di alcuni dei protagonisti, anche se messi in cattiva luce. Un lavoro teatrale, di marionette intessute su una storia non eccelsa tuttavia già capace di evitare il piattume (e il pattume) di certa filmografia. Fabio Volo è filosofia dell’ignoranza: forse ci fa, forse ci è, però dove lo metti sta, e ci sta bene, mentre la Littizzetto, udite udite, usa un vocabolario edulcorato che pure riesce di credere veritiero. La riprova che, con intelligenza e un grande talento solista, tutta l’orchestra, anche senza budget kolossali, può suonare un buon concerto.
Da non perdere: La pubblicità occulta verso il Mac? O magari il contenuto di quel Mac…

VOTO: 7,5 – RIUSCIT(IN)O

Di titanico c'è ben poco: SCONTRO TRA TITANI



Di: Louis Letterier
Con: Sam Wortinghton, Liam Neeson, Gemma Arterton, Ralph Fiennes.
Genere: Fantasy (105’)
Commento: Vaccata fantasy travestita da kolossal, con abbondanza di effetti digitali pixellosi, dunque mal riusciti, e la stolta credenza che la quantità sia sinonimo di qualità. Invece no, anche in un film nato per essere fracassone, con il passaporto obbligato di opera commerciale ed esageratamente plebea, il troppo stroppia: troppi i nemici, che addensandosi rubano un risibile spazio nella trama (ampia la presentazione dei cattivi, decadente ancora prima di incutere timore il loro destino), troppe le citazioni da altri film (da Il signore degli anelli, saccheggiatissimo nelle scenografie, a Excalibur, uno dei pionieri degli effetti speciali, e si era negli anni ’80), troppi i dialoghi fasulli ritagliati su un copione base visto e rivisto, pregno di scontatezza e di epica da bar sport. Stupisce il cast, nel senso che lo spreco è evidente scorrendo i nomi di artisti della new generation – Sam “Avatar” Wortinghton e la (s)ex bond girl Gemma Arterton – mixati con mostri sacri che il fantasy però l’hanno appena masticato (Ralph Fiennes/Ade è Voldemort in Harry Potter, Liam Neeson è un pesce fuor d’acqua, punto e stop). La trama è clamorosamente piatta, veloce, da videogioco, anzi, peggio di un videogioco, perché un game ben fatto propone imprese decisamente più difficili e meno banalizzate di questo pastiche, o pastrocchio, che non rende merito alla nuova moda del peplum movie. I saliscendi restano così potenziali, e l’attesa del next level è ampiamente preannunciata in tutte le sue sfumature, tanto che basta un minimo di arguzia per argomentare già un finale migliore, prima ancora di vedere la reale bruttura scelta come soluzione dal regista (che non a caso lavorò all’esagerato Hulk). Psicologia assente, naturalmente, perché l’action movie vuole la sua parte, e non venite a dirci che questo è un film senza pretese: perché il battage pubblicitario e il portafoglio straripante, esigevano ben altre emozioni. O, almeno, ben altra adrenalina.
Da non perdere: Quei 2 euro e 50 letteralmente rubati per un 3D che non ha senso. Se proprio dovete, guardatelo nelle vecchie, sane due dimensioni.

VOTO: 3 – COLPO GOBBO

Fenomeno d'Oltralpe: IL PICCOLO NICOLAS E I SUOI GENITORI



Di: Laurent Tirard.
Con: Kad Merad, Valerie Lemercier, Maxime Godart.
Genere: Commedia (91’).
Commento: Una delizia per gli occhi, per l’animo e, perché no?, pure per il cervello. I francesi lasciano perdere il palato e il patriottismo della tradizione gastronomica (ma in questa pellicola v’è un pasto che vale la pena di godere) e danno una bella lezione anche alla nostra ritrita commedia. “Nicolas” è un film fresco, come la visuale del mondo da parte di un bambino, e conferma Kad Merad, attore semisconosciuto fino a due stagioni fa, come una certezza: quando c’è lui, andate tranquilli che sarà un lavoro riuscito. Ha bisogno di lavorare in coppia, stavolta in trio, in un film che risolleva la visione della famiglia senza bisogno di frasi fatte o luoghi comuni, bensì con l’inatteso e il caricaturale. Questo perché il mondo deve per forza riuscire esagerato, se viene visto con gli occhi di un pre-adolescente: sia che si tratti di un continuo equivoco (tra un fratellino che nasce o magari ruba soltanto la scena, un genitore con il volto deformato di un orco, un bravo meccanico scambiato per un infallibile sicario), sia che si tratti di dipingere situazioni con tratto monotematico, a senso unico, ma non per questo pesante. Né stupisce che il racconto arrivi dal padre di Asterix, Goschinny, uno dei fumetti più intelligenti mai partoriti. Nicolas e i suoi compagni hanno il gusto retrò, che lascia buon umore – e un filo di dipendenza – in chi esce dalla sala, in una riproposizione sana di quelle che furono le simpatiche canaglie americane della televisione, diretta evoluzione, un filo più rapida e sgangherata, del poetico monello di Chaplin. Che guarda caso, anche se erroneamente, passa spesso per essere più francese che inglese. La regia stilizzata, eppure mai frenetica, fa il resto, condendo con la giusta mano e impacchettando il prodotto. Dedicato a noi, che per riscoprire il nostro Gianburrasca abbiamo avuto bisogno dei cugini d’Oltralpe. In un ritorno al passato che profuma di moderna nostalgia.
Da non perdere: Quei 5-6 minuti iniziali, sufficienti a tratteggiare tutti i personaggi principali. Titoli di testa in medias res, perché presentano e al contempo immettono nel clima gioviale del racconto.

VOTO: 9 - DELIZIOSO

venerdì 12 marzo 2010

L'ultimo Clint (che non sbaglia un colpo): INVICTUS



Di: Clint Eastwood.
Con: Morgan Freeman, Matt Damon, Matt Stern, Patrick Mofokeng.
Genere: Storico/Sportivo (134’).
Commento: La politica quando ancora faceva la politica, e lo sport come arma di seduzione di massa. Non è il cinema a inventare la storia, è la Storia, con la esse maiuscola, a farsi cinema, impostando una vicenda che sembra uscita dalla sceneggiatura artificiale perfetta e invece è mero frutto naturale del destino. Di quel Sudafrica creato con una partita, un Mondiale, di rugby. Stile “Quando eravamo re”, un condensato di pura epica, Clint ai tempi di Nelson. Uno dei rari casi di film che promette e mantiene. E soprattutto un (capo)lavoro doverosamente annunciato dai tre vertici del triangolo di celluloide: Mandela da un lato, Eastwood dall’altro e, dulcis in fundo, l’avventura sportiva forse più puntuale e rimbombante umanamente mai partorita. Da tre colossi non poteva che uscire un monumento: del cinema e dell’emozione, che s’allaccia all’arte filmica poliedrica del regista americano più prolifico e al contempo più ispirato degli ultimi anni, introducendo il filone sportivo “puro”, toccato ma soffocato da tematica ben più struggente in “Million Dollar Baby”, e messo in questo caso in parallelo senza subordinate con la politica, disciplina realizzata sul campo, anche quando parte da un progetto a tavolino. Clint è l’Omero dell’epica sportiva, perché questa è la strada che sceglie di percorrere, a costo di tralasciare ogni tanto l’equilibrio che per larghi tratti regge invece un progetto dai toni, dai colori e dai ritmi iper-classici: poteva mostrare le brutture del Sudafrica con maggiore crudezza visiva e quel finale denso e ottimista, in verità, stride con quanto ancora accade nella propaggine più meridionale dell’Africa. Ma la sua limatura sembra voluta, non casuale, come del resto nulla sfugge a chi ha maturato un’esperienza filmica, che porta ora a dosare con il bilancino ogni singolo fotogramma: cernita e rappresentazione. Come Michelangelo, insomma, Clint toglie e scalpella via, e come un Canaletto, invece, scelto il sentiero da percorrere e scartati tutti gli altri, ricama e aggiunge particolari deliziosi. Anche nell’evento clou del film, il ricordo del prigioniero 46664, si passa per un dolore e un’umiliazione appena accennate agli occhi (prevale il non-visto) eppure ben coscienti per chi sappia capirle, ponendo invece in risalto, poeticamente, il riscatto che passa tramite gli splendidi versi di William Hernest Henley, autore del componimento “Invictus”, che dà il titolo al film. A livello di realizzazione “sportiva” poi si ottiene quanto di meglio si possa sperare, con degna menzione delle riprese dal campo, e persino Matt Damon, che sembrava sin qui abbonato alla parte del ragazzaccio tutta azione, dimostra un cuore sotto i muscoli, adattandosi perfettamente al clima di grancassa e di centellinata esaltazione che permea ogni gara all’Ellis Park di Johannesburg. Le gare di rugby sembrano vere, anche perché accanto alla fiction tornano documentari che hanno fatto la storia (su tutti lo spezzone delle quattro mete di Lomu, il migliore giocatore di sempre della palla ovale, nella semifinale in cui la Nuova Zelanda schiantò l’Inghilterra, ponendosi poi come unica antagonista, annunciata ma rispettata) e contribuiscono alla credibilità della telecamera. Stonate, forse, alcune esagerazioni: il cronometro che rimbomba nell’ultimo count-down, le risse con grugniti di ogni sorta a simboleggiare la furia di un popolo alla ricerca di una nuova età dell’oro, e alcuni picchi di retorica oggettivamente difficili da digerire. Ma, nell’epoca dei Caressa e dell’”incredibile” troppo poco credibile, Eastwood ha la capacità di apparire sincero e di non lanciare acuti di sentimentalismo casuali. Freeman fa storia a sé, elargendo tutto il carisma di Mandela in quella compassata serenità da leader maturo, che trasmuta le insicurezze in certezze, perché prima del potere mette il sacrificio attuato per arrivare alla meta (non solo sportiva). Una prova che giustifica il casting, non solo con la somiglianza fisica tra protagonista filmico e reale. Ultima annotazione, forse la più convincente: Eastwood, come sempre, ha un occhio di riguardo anche per i “cattivi”, per gli sconfitti, e crede nella forza delle redenzione più che della condanna incancellabile. Ecco perché questo film, tratto da una storia vera e sospinto nella sceneggiatura dal libro di Carlin “Ama il tuo nemico”, sembra scritto su misura proprio per i valori dell’ennesimo, magnificente (anche troppo) Clint.
Da non perdere: Uno dei passaggi più commoventi dell’intera pellicola: i quattro biglietti per il match finale regalati alla famiglia da capitan Pienaar. L’ultimo dei quali ad un ospite inatteso, in un simbolico omaggio ai tempi che cambiano.

VOTO: 8.5 - POSSENTE

giovedì 11 marzo 2010

Uno Scorsese poco Scorsese: SHUTTER ISLAND



Di: Martin Scorsese
Con: Leonardo Di Caprio, Ben Kinglsey, Mark Ruffalo.
Genere: Thriller (137’).
Commento: Buona storia non è necessariamente sinonimo di buona sceneggiatura, e allora Shutter Island di Scorsese rischia di ridursi ad un buon battage pubblicitario per l’omonimo romanzo di Dennis Lehane. Di Caprio è sempre Di Caprio, anche se alla lunga rischia di inebetirsi nella solita espressione corrugata e ed eternamente combattuta che condiziona ormai tutti i suoi ultimi prodotti, mentre al magno regista va, se non altro, riconosciuto di avere osato uscendo, con i colori e le atmosfere gotiche, dai canoni classici che ne avevano contraddistinto gli ultimi lavori. Detto questo, la realizzazione funziona a metà: perché la visionarietà degli squarci onirici pare da subito un flash-forward sprecato, da lavorare diversamente; perché il colpo di scena, che tutto sommato funziona, arriva appoggiato da una serie di psicosi mentali del protagonista. Meglio il capovolgimento fulmineo o quello viaggiante di pari passo con la trama? Questione di gusti, certo è che l’effetto ottenuto sembra quantomeno un po’ bloccato. Tinte horror e molto thriller completano il quadro, in un labirinto a chiocciola che richiama Mad House e pure il fumetto di Batman Arkham Asylum, in quello che non è un elogio della follia, ma una consapevole e misurata (forse troppo) discesa nella nebbia della mente umana. Curioso, nell’equilibrio di Scorsese, che proprio nel luogo e nel passato più oscuro si posso ritrovare la verità unica e imprescindibile (dopo vari effetti Rashomon, ovvero ripetizioni da visuali diverse, appena abbozzati). Con quella battuta finale che è un colpo di teatro (raro) che nuovamente sbilancia il confine tra mondo virtuale ricreato e reale consapevolezza di un futuro migliore nella realizzazione del destino peggiore. Da vedere, sapendo però di avere a che fare con uno Scorsese che sperimenta e, dunque, non convince.
Da non perdere: I tre suoni della sirena, che valgono più di tutto il resto della colonna sonora.

VOTO: 6 - INQUIETO

Dalla Terra alla Zona di Mezzo: Jackson è tornato AMABILI RESTI




Di: Peter Jackson.
Con: Saoirse Ronan, Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Stanley Tucci, Susan
Sarandon.
Genere: Thriller (130’).
Commento: Jackson raccoglie gli amabili resti e li riunisce, confezionando un cross-over di ge-neri iper-originale che colpisce al cuore. La storia, splendida di per sè, nata dall’infanzia distrutta di Alice Sebold (autrice del libro), realmente stuprata a 14 anni,
ispira Jackson che, oltre i doverosi ritocchi alla sceneggiatura, cerca di non distorcere da quelle pagine il succo di una trama triste e amara, eppure aggrappata alla sovrannaturale speranza di un mondo migliore. Thriller, fantasy, horror, tragedia del ricordo e dei mondi paralleli: dalla Terra di Mezzo alla Zona di Mezzo, Peter Jackson si fa Vate del digitale, per una strada pacata, creando arlecchinate con minor follia di Parnassus e più serena visionarietà di Avatar, per non sbugiardare l’ingenua natura di una ragazzina, che nella morte ha ancora la purezza per agognare un ultimo bacio. Anche una quotidianità eccezionalmente spezzata può prendere sapore. Alcune scene fanno la storia, alzando la tensione e incollando l’animo allo sviluppo della vicenda, mentre Stanley Tucci punta tutto sulla qualità facciale, mettendo da parte quantità di inquadrature e riprese: un Oscar si può vincere anche così. Il resto è poesia, con rare stonature: forse la storia rallenta troppo nelle fase centrale, mentre la reazione del
padre di Suzie rasenta la schizofrenia in un climax ascendente troppo ripido, ma le piccole pecche di sceneggiatura vengono ripagate da scelte registiche che sanno incollare momenti, nel libro, lontanissimi. Delicato e crudo, con un narratore d’eccezione: mai visto al cinema? Per senza conoscenze enciclopediche, ci pare che
stavolta sia così.
Da non perdere: La spiegazione di cosa siano gli amabili resti del titolo. E quella stalattite, contrappasso geniale.

VOTO: 8,5 - COLLAGE

sabato 6 marzo 2010

ALICE (poco) IN WONDERLAND



Di: Tim Burton
Con: Johnny Deep, Helena Bonham Carter, Mia Wasikowska, Anne Hathaway, Crispin Glover.
Genere: Fantasy (108’).
Commento: Vogliamo dirla tutta? Ma proprio tutta tutta, fino in fondo, senza ledere la maestà di nessuno? Questo Tim Burton ha abbastanza deluso: talmente abbastanza da far pensare che Alice in Wonderland non sia frutto della sua (solitamente) abile inventiva e del suo fervido potere immaginifico, bensì di un consumato regista di remake, che accetta la storia, non la violenta ma rinuncia di fatto a imprimere il suo ego, altre volte prepotente, all’interno della rivisitazione del capolavoro di Lewis Carrol. Alice è comunque un bel film, ma l’impressione, uscendo di sala, è di avere avuto a che fare prima di tutto con una grande occasione mancata: se infatti, all’ingresso, ti chiedi come abbia faccio un cervello multiforme come quello di Burton ad avere atteso così tanto per mettere in carniere un racconto confezionato su misura per la sua carriera popolata di strani esseri e di insanità gotica, all’uscita sei costretto a rimangiarti il dubbio e a sostituirlo. Perché Burton non ha osato? Non vorremmo che il suo soggiorno inglese avesse un po’ imborghesito l’ex lato oscuro del regista, sospetto questo acuito dalla bandiera di Sua Maestà imposta sulla storia sin dalla nebbia di Londra iniziale. L’impressione è che il rispetto dovuto al caposaldo letterario, vuoi anche per intercessione della Disney alla produzione, sia sconfinato in un’ammirazione troppo soffocante e patrizio: la morte dell’antieroe. Anche la poesia e il lirismo del Burton rattrappiscono dietro la trama dell’ovvio, tramandata da un oracolo e incapace di sviare: del resto, l’emancipazione finale di Alice sa molto di liberazione interrotta, non piena, di pari passo con le mosse registiche (meno esplicite di sempre) del regista. Mosse le critiche, forse anche pesanti, l’ora e quaranta di pellicola esibisce una trama spiccia, che ha un merito in mezzo a qualche gogna, quello di non perdere per strada nessun pezzo, velocizzando il racconto in modo da adattarlo alla concentrazione dei più giovani e altresì all’eterna richiesta di spigliatezza del mondo adulto. Le creature rinnovate tra umano e digitale (nuovo, ma nemmeno troppo, soffio di Adamo del fantasy) rischiano di mostrarsi come semplici macchiette, ma in fondo questo erano anche nell’originale, mentre Deep Cappellaio Matto non giustifica tutta l’attesa, con una prova sopra le righe, ma troppo imburrata in un trucco greve per non risultare alla lunga eccessivamente “normale” nel confronto con la carriera dell’attore. Stregatto, Brucaliffo, Coniglio e Lepre sono eredità della storia, personaggi ai quali Burton imprime una dose ridotta di ironia, ma dai quali se non altro spreme l’attesa rivincita di comprimari, quasi-protagonisti: avrebbe aiutato sfruttarli in tono maggiore. Da favola la scenografia, gli eserciti di carte e pure l’interpretazione delle due Regine (Anne Hathaway non è mai stata così teatralmente azzeccata nella sua ocaggine), mentre Mia Wasikowska, all’esordio, non demerita ma mostra qualche difetto di personalità. Sprecato in assoluto il 3D, mai come stavolta mezzo per fare soldi, punto e stop. Riassumendo insomma, quello che avvince Burton è un particolare complesso di Edipo: se il regista inventa da zero, divenendo Dio Creatore e Padre di una storia tutta sua, allora non sbaglia manco una virgola, amando la creatura e intingendo tutta la follia che ne costituisce il marchio di fabbrica; se invece cerca il remake non si alza dall’orizzonte del “buon film”. Non è un caso che l’ultimo suo capolavoro sia stato Sweeney Todd, una storia d’amore e orrore molto sui generis, presa da un musical ed adattata magicamente al cinema. Alice, nelle sue meraviglie, meraviglia solo fino ad un certo punto, e del resto al momento della prima conferenza stampa lo stesso Burton ha ammesso di aver voluto rendere tutta la sacralità dell’originale: in questo senso v’è riuscito ma, in tutta franchezza, chi scrive ama troppo Tim Burton per non sentire la mancanza della sua genuina pazzia.
Da non perdere: Oltre ai dialoghi e allo slang carroliano riadattato all’italiano, la luna con gli occhi dello Stregatto, una firma tipicamente burtoniana. Peccato sia rimasta l’unica. Deprecabile invece il balletto della Deliranza, circondato da mistica attesa e poi risolto in un’ilare (troppo) passo di danza.

VOTO: 7 – INCATENATO

venerdì 15 gennaio 2010

Il ritorno... con una super anteprima: AVATAR



Di: James Cameron.
Con: Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Michelle Rodriguez.
Genere: Fantascienza (166’).
Commento: C’è voluto James Cameron per confermare, sotto la pompa magna del film più atteso di tutti i tempi, la preveggenza del saggio Vladimir Propp. Da un lato il regista americano che più ha speso (e tanto più ha guadagnato, meritando fino all’ultimo centesimo il proprio successo) nella storia del cinema mondiale, con tutte le complicazioni che questa etichetta comporta; dall’altro la linearità degli studi del formalista russo, capace di sventrare una fiaba e ricomporla in funzioni che sempre si ripetono. Perché questo, alla fine, è Avatar: una fiaba ultra-moderna, che dietro alla tecnologia del virtuale, nasconde una trama che di intricato non ha nulla. Ma non è questo un male, anzi. Casomai è solo il primo di una serie di splendidi controsensi, rintracciabili in quasi tre ore di viaggio mentale, dove la quarta parete dello schermo è al contempo padrina del sogno e matrigna fastidiosa (e vedremo perché). Un film hegeliano, che sfrutta la dialettica degli opposti per scaturire una magnifica sintesi, visibile su vari livelli. Partiamo dal plot: lineare, abbiamo detto, semplicissimo, che non significa banale. Tutto va, in fondo, come deve andare, senza bisogno di colpi di testa della sceneggiatura, perché è l’intera corrente del film a mantenere sospeso il voltaggio senza cali di tensione, e senza bisogno di picchi per riportare al centro l’attenzione. Semplice ma originale, nel senso che, all’infuori di un messaggio ecologista retorico come il Chaplin del Grande Dittatore, finalmente inventa qualcosa di nuovo e non il solito adattamento da libri, fumetti o storie vere. Il cinema ne aveva bisogno e Avatar esiste perché al cinema, solo lì, vive, Avatar esiste perché l’ha ideato, da zero, Cameron. Secondo paradosso: i personaggi. Sono flat characters, ai quali però ci s’affeziona: i turbamenti dell’animo sono accennati, ma sostanzialmente il ruolo di protagonista-antagonista non subisce scossoni. Spiriti quasi da cartoon. Attori, dunque, funzionali alla trama, e qui sta il bello: perché non è il movimento interiore degli Avatar o degli umani alienati dalla sete di potere a colpire, bensì la rete di rapporti che questi caratteri “piatti” creano. E’ l’interazione, il link appunto, a fruttare l’emozione: tra esseri viventi, natura compresa, in una visione panteistica del mondo. Poi viene il messaggio: il film più costoso di tutti i tempi svela una morale che è puro primitivismo, alla Rosseau. Modernismo complicatissimo per una poetica delle origini. La civiltà ha ammazzato l’uomo, e Cameron ce lo racconta, mettendo in scena, con le tecnologie più avanzate, il mondo più spoglio (di tecnologia) che esiste: Pandora è la splendida sintesi della difficoltà del “come” dire le cose opposta alla semplicità di un messaggio rivolto davvero alla massa. Come voleva Propp: non è la storia in sé a cambiare la sua forma, ma è il modo in cui la si racconta a garantirle successo. Ed è, in fondo, anche lo stesso controsenso del cinema: sfruttare modernità complicatissime, vere e proprie macchine infernali, per arrivare a tutti, non solo alla nicchia. Ossia: uno solo può fare il film, dio Creatore, che alla massa intende poi rivolgersi. Avatar prodotto commerciale dunque? Decisamente sì, perché nella sua “tuttologia” mette a segno anche critiche forti alla politica estera americana (immancabili e nemmeno tanto velate), che sfrutta il capitalismo per ammazzarlo di concetti anti-capitalistici. Un serpente che si morde la coda, e soprattutto ha il coraggio di auto-condannarsi, a quanto pare, sinceramente. Avatar, in sostanza, non cancella il cinema precedente, perché da esso attinge a piene mani, e lo risuscita in tutta la sua potenza visiva. Vedere per credere il passaggio del “discorso dell’eroe prima della battaglia”, formula classica, ma rivisitata nell’ottica della tolleranza, con la traduzione simultanea davanti alla folla oceanica: trovata che dà un senso ad un passaggio altrimenti vacuo e di pura verbosità. L’ultimo paradosso è un richiamo all’umanità: perché nel virtuale più paradisiaco possibile (scene corali da pelle d’oca e volo degli Ikran da fissare nella storia del cinema, con parecchia attenzione anche a curiosi dettagli), resta lo spazio per quell’ultimo fotogramma, che fotografa un primo piano a metà tra l’umano e la creatura eletta. Un’esperienza totalizzante, da vivere, che dà un senso al cinema e fa sembrare sprecata la comoda poltrona di casa con annesso dvd. La prova? Empiricamente non c’è, perché si vive sempre di sensazioni e giudizi soggettivi, ma due indizi ci permettiamo di fornirli: alla fine, pur dopo due ore e quaranta di film, non vi sentirete ancora sazi; e soprattutto, potere di un 3D finalmente ben sfruttato, otterrete più volte la consapevolezza della piccolezza dello schermo in sala, che quasi apparirà fuori luogo. Vi accorgerete, e maledirete, quel rettangolo di luce, e vorrete espanderlo all’infinito. E’ droga dell’onirismo, di un capolavoro destinato forse a fare discutere, ma capace di consentire, finalmente, anche alle nuove generazioni, di capire cosa provò chi, per la prima volta al cinema, vide nel 1977 Star Wars. Ora come allora, il cinema non potrà fare a meno di confrontarsi con una pietra miliare della fantascienza.
Da non perdere: Due parole, il resto lo lasciamo a voi: la scenografia.

VOTO: 10 – FLAUTO DI PAN