
Di: Tim Burton
Con: Johnny Deep, Helena Bonham Carter, Mia Wasikowska, Anne Hathaway, Crispin Glover.
Genere: Fantasy (108’).
Commento: Vogliamo dirla tutta? Ma proprio tutta tutta, fino in fondo, senza ledere la maestà di nessuno? Questo Tim Burton ha abbastanza deluso: talmente abbastanza da far pensare che Alice in Wonderland non sia frutto della sua (solitamente) abile inventiva e del suo fervido potere immaginifico, bensì di un consumato regista di remake, che accetta la storia, non la violenta ma rinuncia di fatto a imprimere il suo ego, altre volte prepotente, all’interno della rivisitazione del capolavoro di Lewis Carrol. Alice è comunque un bel film, ma l’impressione, uscendo di sala, è di avere avuto a che fare prima di tutto con una grande occasione mancata: se infatti, all’ingresso, ti chiedi come abbia faccio un cervello multiforme come quello di Burton ad avere atteso così tanto per mettere in carniere un racconto confezionato su misura per la sua carriera popolata di strani esseri e di insanità gotica, all’uscita sei costretto a rimangiarti il dubbio e a sostituirlo. Perché Burton non ha osato? Non vorremmo che il suo soggiorno inglese avesse un po’ imborghesito l’ex lato oscuro del regista, sospetto questo acuito dalla bandiera di Sua Maestà imposta sulla storia sin dalla nebbia di Londra iniziale. L’impressione è che il rispetto dovuto al caposaldo letterario, vuoi anche per intercessione della Disney alla produzione, sia sconfinato in un’ammirazione troppo soffocante e patrizio: la morte dell’antieroe. Anche la poesia e il lirismo del Burton rattrappiscono dietro la trama dell’ovvio, tramandata da un oracolo e incapace di sviare: del resto, l’emancipazione finale di Alice sa molto di liberazione interrotta, non piena, di pari passo con le mosse registiche (meno esplicite di sempre) del regista. Mosse le critiche, forse anche pesanti, l’ora e quaranta di pellicola esibisce una trama spiccia, che ha un merito in mezzo a qualche gogna, quello di non perdere per strada nessun pezzo, velocizzando il racconto in modo da adattarlo alla concentrazione dei più giovani e altresì all’eterna richiesta di spigliatezza del mondo adulto. Le creature rinnovate tra umano e digitale (nuovo, ma nemmeno troppo, soffio di Adamo del fantasy) rischiano di mostrarsi come semplici macchiette, ma in fondo questo erano anche nell’originale, mentre Deep Cappellaio Matto non giustifica tutta l’attesa, con una prova sopra le righe, ma troppo imburrata in un trucco greve per non risultare alla lunga eccessivamente “normale” nel confronto con la carriera dell’attore. Stregatto, Brucaliffo, Coniglio e Lepre sono eredità della storia, personaggi ai quali Burton imprime una dose ridotta di ironia, ma dai quali se non altro spreme l’attesa rivincita di comprimari, quasi-protagonisti: avrebbe aiutato sfruttarli in tono maggiore. Da favola la scenografia, gli eserciti di carte e pure l’interpretazione delle due Regine (Anne Hathaway non è mai stata così teatralmente azzeccata nella sua ocaggine), mentre Mia Wasikowska, all’esordio, non demerita ma mostra qualche difetto di personalità. Sprecato in assoluto il 3D, mai come stavolta mezzo per fare soldi, punto e stop. Riassumendo insomma, quello che avvince Burton è un particolare complesso di Edipo: se il regista inventa da zero, divenendo Dio Creatore e Padre di una storia tutta sua, allora non sbaglia manco una virgola, amando la creatura e intingendo tutta la follia che ne costituisce il marchio di fabbrica; se invece cerca il remake non si alza dall’orizzonte del “buon film”. Non è un caso che l’ultimo suo capolavoro sia stato Sweeney Todd, una storia d’amore e orrore molto sui generis, presa da un musical ed adattata magicamente al cinema. Alice, nelle sue meraviglie, meraviglia solo fino ad un certo punto, e del resto al momento della prima conferenza stampa lo stesso Burton ha ammesso di aver voluto rendere tutta la sacralità dell’originale: in questo senso v’è riuscito ma, in tutta franchezza, chi scrive ama troppo Tim Burton per non sentire la mancanza della sua genuina pazzia.
Da non perdere: Oltre ai dialoghi e allo slang carroliano riadattato all’italiano, la luna con gli occhi dello Stregatto, una firma tipicamente burtoniana. Peccato sia rimasta l’unica. Deprecabile invece il balletto della Deliranza, circondato da mistica attesa e poi risolto in un’ilare (troppo) passo di danza.
VOTO: 7 – INCATENATO
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