venerdì 12 marzo 2010

L'ultimo Clint (che non sbaglia un colpo): INVICTUS



Di: Clint Eastwood.
Con: Morgan Freeman, Matt Damon, Matt Stern, Patrick Mofokeng.
Genere: Storico/Sportivo (134’).
Commento: La politica quando ancora faceva la politica, e lo sport come arma di seduzione di massa. Non è il cinema a inventare la storia, è la Storia, con la esse maiuscola, a farsi cinema, impostando una vicenda che sembra uscita dalla sceneggiatura artificiale perfetta e invece è mero frutto naturale del destino. Di quel Sudafrica creato con una partita, un Mondiale, di rugby. Stile “Quando eravamo re”, un condensato di pura epica, Clint ai tempi di Nelson. Uno dei rari casi di film che promette e mantiene. E soprattutto un (capo)lavoro doverosamente annunciato dai tre vertici del triangolo di celluloide: Mandela da un lato, Eastwood dall’altro e, dulcis in fundo, l’avventura sportiva forse più puntuale e rimbombante umanamente mai partorita. Da tre colossi non poteva che uscire un monumento: del cinema e dell’emozione, che s’allaccia all’arte filmica poliedrica del regista americano più prolifico e al contempo più ispirato degli ultimi anni, introducendo il filone sportivo “puro”, toccato ma soffocato da tematica ben più struggente in “Million Dollar Baby”, e messo in questo caso in parallelo senza subordinate con la politica, disciplina realizzata sul campo, anche quando parte da un progetto a tavolino. Clint è l’Omero dell’epica sportiva, perché questa è la strada che sceglie di percorrere, a costo di tralasciare ogni tanto l’equilibrio che per larghi tratti regge invece un progetto dai toni, dai colori e dai ritmi iper-classici: poteva mostrare le brutture del Sudafrica con maggiore crudezza visiva e quel finale denso e ottimista, in verità, stride con quanto ancora accade nella propaggine più meridionale dell’Africa. Ma la sua limatura sembra voluta, non casuale, come del resto nulla sfugge a chi ha maturato un’esperienza filmica, che porta ora a dosare con il bilancino ogni singolo fotogramma: cernita e rappresentazione. Come Michelangelo, insomma, Clint toglie e scalpella via, e come un Canaletto, invece, scelto il sentiero da percorrere e scartati tutti gli altri, ricama e aggiunge particolari deliziosi. Anche nell’evento clou del film, il ricordo del prigioniero 46664, si passa per un dolore e un’umiliazione appena accennate agli occhi (prevale il non-visto) eppure ben coscienti per chi sappia capirle, ponendo invece in risalto, poeticamente, il riscatto che passa tramite gli splendidi versi di William Hernest Henley, autore del componimento “Invictus”, che dà il titolo al film. A livello di realizzazione “sportiva” poi si ottiene quanto di meglio si possa sperare, con degna menzione delle riprese dal campo, e persino Matt Damon, che sembrava sin qui abbonato alla parte del ragazzaccio tutta azione, dimostra un cuore sotto i muscoli, adattandosi perfettamente al clima di grancassa e di centellinata esaltazione che permea ogni gara all’Ellis Park di Johannesburg. Le gare di rugby sembrano vere, anche perché accanto alla fiction tornano documentari che hanno fatto la storia (su tutti lo spezzone delle quattro mete di Lomu, il migliore giocatore di sempre della palla ovale, nella semifinale in cui la Nuova Zelanda schiantò l’Inghilterra, ponendosi poi come unica antagonista, annunciata ma rispettata) e contribuiscono alla credibilità della telecamera. Stonate, forse, alcune esagerazioni: il cronometro che rimbomba nell’ultimo count-down, le risse con grugniti di ogni sorta a simboleggiare la furia di un popolo alla ricerca di una nuova età dell’oro, e alcuni picchi di retorica oggettivamente difficili da digerire. Ma, nell’epoca dei Caressa e dell’”incredibile” troppo poco credibile, Eastwood ha la capacità di apparire sincero e di non lanciare acuti di sentimentalismo casuali. Freeman fa storia a sé, elargendo tutto il carisma di Mandela in quella compassata serenità da leader maturo, che trasmuta le insicurezze in certezze, perché prima del potere mette il sacrificio attuato per arrivare alla meta (non solo sportiva). Una prova che giustifica il casting, non solo con la somiglianza fisica tra protagonista filmico e reale. Ultima annotazione, forse la più convincente: Eastwood, come sempre, ha un occhio di riguardo anche per i “cattivi”, per gli sconfitti, e crede nella forza delle redenzione più che della condanna incancellabile. Ecco perché questo film, tratto da una storia vera e sospinto nella sceneggiatura dal libro di Carlin “Ama il tuo nemico”, sembra scritto su misura proprio per i valori dell’ennesimo, magnificente (anche troppo) Clint.
Da non perdere: Uno dei passaggi più commoventi dell’intera pellicola: i quattro biglietti per il match finale regalati alla famiglia da capitan Pienaar. L’ultimo dei quali ad un ospite inatteso, in un simbolico omaggio ai tempi che cambiano.

VOTO: 8.5 - POSSENTE

giovedì 11 marzo 2010

Uno Scorsese poco Scorsese: SHUTTER ISLAND



Di: Martin Scorsese
Con: Leonardo Di Caprio, Ben Kinglsey, Mark Ruffalo.
Genere: Thriller (137’).
Commento: Buona storia non è necessariamente sinonimo di buona sceneggiatura, e allora Shutter Island di Scorsese rischia di ridursi ad un buon battage pubblicitario per l’omonimo romanzo di Dennis Lehane. Di Caprio è sempre Di Caprio, anche se alla lunga rischia di inebetirsi nella solita espressione corrugata e ed eternamente combattuta che condiziona ormai tutti i suoi ultimi prodotti, mentre al magno regista va, se non altro, riconosciuto di avere osato uscendo, con i colori e le atmosfere gotiche, dai canoni classici che ne avevano contraddistinto gli ultimi lavori. Detto questo, la realizzazione funziona a metà: perché la visionarietà degli squarci onirici pare da subito un flash-forward sprecato, da lavorare diversamente; perché il colpo di scena, che tutto sommato funziona, arriva appoggiato da una serie di psicosi mentali del protagonista. Meglio il capovolgimento fulmineo o quello viaggiante di pari passo con la trama? Questione di gusti, certo è che l’effetto ottenuto sembra quantomeno un po’ bloccato. Tinte horror e molto thriller completano il quadro, in un labirinto a chiocciola che richiama Mad House e pure il fumetto di Batman Arkham Asylum, in quello che non è un elogio della follia, ma una consapevole e misurata (forse troppo) discesa nella nebbia della mente umana. Curioso, nell’equilibrio di Scorsese, che proprio nel luogo e nel passato più oscuro si posso ritrovare la verità unica e imprescindibile (dopo vari effetti Rashomon, ovvero ripetizioni da visuali diverse, appena abbozzati). Con quella battuta finale che è un colpo di teatro (raro) che nuovamente sbilancia il confine tra mondo virtuale ricreato e reale consapevolezza di un futuro migliore nella realizzazione del destino peggiore. Da vedere, sapendo però di avere a che fare con uno Scorsese che sperimenta e, dunque, non convince.
Da non perdere: I tre suoni della sirena, che valgono più di tutto il resto della colonna sonora.

VOTO: 6 - INQUIETO

Dalla Terra alla Zona di Mezzo: Jackson è tornato AMABILI RESTI




Di: Peter Jackson.
Con: Saoirse Ronan, Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Stanley Tucci, Susan
Sarandon.
Genere: Thriller (130’).
Commento: Jackson raccoglie gli amabili resti e li riunisce, confezionando un cross-over di ge-neri iper-originale che colpisce al cuore. La storia, splendida di per sè, nata dall’infanzia distrutta di Alice Sebold (autrice del libro), realmente stuprata a 14 anni,
ispira Jackson che, oltre i doverosi ritocchi alla sceneggiatura, cerca di non distorcere da quelle pagine il succo di una trama triste e amara, eppure aggrappata alla sovrannaturale speranza di un mondo migliore. Thriller, fantasy, horror, tragedia del ricordo e dei mondi paralleli: dalla Terra di Mezzo alla Zona di Mezzo, Peter Jackson si fa Vate del digitale, per una strada pacata, creando arlecchinate con minor follia di Parnassus e più serena visionarietà di Avatar, per non sbugiardare l’ingenua natura di una ragazzina, che nella morte ha ancora la purezza per agognare un ultimo bacio. Anche una quotidianità eccezionalmente spezzata può prendere sapore. Alcune scene fanno la storia, alzando la tensione e incollando l’animo allo sviluppo della vicenda, mentre Stanley Tucci punta tutto sulla qualità facciale, mettendo da parte quantità di inquadrature e riprese: un Oscar si può vincere anche così. Il resto è poesia, con rare stonature: forse la storia rallenta troppo nelle fase centrale, mentre la reazione del
padre di Suzie rasenta la schizofrenia in un climax ascendente troppo ripido, ma le piccole pecche di sceneggiatura vengono ripagate da scelte registiche che sanno incollare momenti, nel libro, lontanissimi. Delicato e crudo, con un narratore d’eccezione: mai visto al cinema? Per senza conoscenze enciclopediche, ci pare che
stavolta sia così.
Da non perdere: La spiegazione di cosa siano gli amabili resti del titolo. E quella stalattite, contrappasso geniale.

VOTO: 8,5 - COLLAGE

sabato 6 marzo 2010

ALICE (poco) IN WONDERLAND



Di: Tim Burton
Con: Johnny Deep, Helena Bonham Carter, Mia Wasikowska, Anne Hathaway, Crispin Glover.
Genere: Fantasy (108’).
Commento: Vogliamo dirla tutta? Ma proprio tutta tutta, fino in fondo, senza ledere la maestà di nessuno? Questo Tim Burton ha abbastanza deluso: talmente abbastanza da far pensare che Alice in Wonderland non sia frutto della sua (solitamente) abile inventiva e del suo fervido potere immaginifico, bensì di un consumato regista di remake, che accetta la storia, non la violenta ma rinuncia di fatto a imprimere il suo ego, altre volte prepotente, all’interno della rivisitazione del capolavoro di Lewis Carrol. Alice è comunque un bel film, ma l’impressione, uscendo di sala, è di avere avuto a che fare prima di tutto con una grande occasione mancata: se infatti, all’ingresso, ti chiedi come abbia faccio un cervello multiforme come quello di Burton ad avere atteso così tanto per mettere in carniere un racconto confezionato su misura per la sua carriera popolata di strani esseri e di insanità gotica, all’uscita sei costretto a rimangiarti il dubbio e a sostituirlo. Perché Burton non ha osato? Non vorremmo che il suo soggiorno inglese avesse un po’ imborghesito l’ex lato oscuro del regista, sospetto questo acuito dalla bandiera di Sua Maestà imposta sulla storia sin dalla nebbia di Londra iniziale. L’impressione è che il rispetto dovuto al caposaldo letterario, vuoi anche per intercessione della Disney alla produzione, sia sconfinato in un’ammirazione troppo soffocante e patrizio: la morte dell’antieroe. Anche la poesia e il lirismo del Burton rattrappiscono dietro la trama dell’ovvio, tramandata da un oracolo e incapace di sviare: del resto, l’emancipazione finale di Alice sa molto di liberazione interrotta, non piena, di pari passo con le mosse registiche (meno esplicite di sempre) del regista. Mosse le critiche, forse anche pesanti, l’ora e quaranta di pellicola esibisce una trama spiccia, che ha un merito in mezzo a qualche gogna, quello di non perdere per strada nessun pezzo, velocizzando il racconto in modo da adattarlo alla concentrazione dei più giovani e altresì all’eterna richiesta di spigliatezza del mondo adulto. Le creature rinnovate tra umano e digitale (nuovo, ma nemmeno troppo, soffio di Adamo del fantasy) rischiano di mostrarsi come semplici macchiette, ma in fondo questo erano anche nell’originale, mentre Deep Cappellaio Matto non giustifica tutta l’attesa, con una prova sopra le righe, ma troppo imburrata in un trucco greve per non risultare alla lunga eccessivamente “normale” nel confronto con la carriera dell’attore. Stregatto, Brucaliffo, Coniglio e Lepre sono eredità della storia, personaggi ai quali Burton imprime una dose ridotta di ironia, ma dai quali se non altro spreme l’attesa rivincita di comprimari, quasi-protagonisti: avrebbe aiutato sfruttarli in tono maggiore. Da favola la scenografia, gli eserciti di carte e pure l’interpretazione delle due Regine (Anne Hathaway non è mai stata così teatralmente azzeccata nella sua ocaggine), mentre Mia Wasikowska, all’esordio, non demerita ma mostra qualche difetto di personalità. Sprecato in assoluto il 3D, mai come stavolta mezzo per fare soldi, punto e stop. Riassumendo insomma, quello che avvince Burton è un particolare complesso di Edipo: se il regista inventa da zero, divenendo Dio Creatore e Padre di una storia tutta sua, allora non sbaglia manco una virgola, amando la creatura e intingendo tutta la follia che ne costituisce il marchio di fabbrica; se invece cerca il remake non si alza dall’orizzonte del “buon film”. Non è un caso che l’ultimo suo capolavoro sia stato Sweeney Todd, una storia d’amore e orrore molto sui generis, presa da un musical ed adattata magicamente al cinema. Alice, nelle sue meraviglie, meraviglia solo fino ad un certo punto, e del resto al momento della prima conferenza stampa lo stesso Burton ha ammesso di aver voluto rendere tutta la sacralità dell’originale: in questo senso v’è riuscito ma, in tutta franchezza, chi scrive ama troppo Tim Burton per non sentire la mancanza della sua genuina pazzia.
Da non perdere: Oltre ai dialoghi e allo slang carroliano riadattato all’italiano, la luna con gli occhi dello Stregatto, una firma tipicamente burtoniana. Peccato sia rimasta l’unica. Deprecabile invece il balletto della Deliranza, circondato da mistica attesa e poi risolto in un’ilare (troppo) passo di danza.

VOTO: 7 – INCATENATO