
Di: Clint Eastwood.
Con: Morgan Freeman, Matt Damon, Matt Stern, Patrick Mofokeng.
Genere: Storico/Sportivo (134’).
Commento: La politica quando ancora faceva la politica, e lo sport come arma di seduzione di massa. Non è il cinema a inventare la storia, è la Storia, con la esse maiuscola, a farsi cinema, impostando una vicenda che sembra uscita dalla sceneggiatura artificiale perfetta e invece è mero frutto naturale del destino. Di quel Sudafrica creato con una partita, un Mondiale, di rugby. Stile “Quando eravamo re”, un condensato di pura epica, Clint ai tempi di Nelson. Uno dei rari casi di film che promette e mantiene. E soprattutto un (capo)lavoro doverosamente annunciato dai tre vertici del triangolo di celluloide: Mandela da un lato, Eastwood dall’altro e, dulcis in fundo, l’avventura sportiva forse più puntuale e rimbombante umanamente mai partorita. Da tre colossi non poteva che uscire un monumento: del cinema e dell’emozione, che s’allaccia all’arte filmica poliedrica del regista americano più prolifico e al contempo più ispirato degli ultimi anni, introducendo il filone sportivo “puro”, toccato ma soffocato da tematica ben più struggente in “Million Dollar Baby”, e messo in questo caso in parallelo senza subordinate con la politica, disciplina realizzata sul campo, anche quando parte da un progetto a tavolino. Clint è l’Omero dell’epica sportiva, perché questa è la strada che sceglie di percorrere, a costo di tralasciare ogni tanto l’equilibrio che per larghi tratti regge invece un progetto dai toni, dai colori e dai ritmi iper-classici: poteva mostrare le brutture del Sudafrica con maggiore crudezza visiva e quel finale denso e ottimista, in verità, stride con quanto ancora accade nella propaggine più meridionale dell’Africa. Ma la sua limatura sembra voluta, non casuale, come del resto nulla sfugge a chi ha maturato un’esperienza filmica, che porta ora a dosare con il bilancino ogni singolo fotogramma: cernita e rappresentazione. Come Michelangelo, insomma, Clint toglie e scalpella via, e come un Canaletto, invece, scelto il sentiero da percorrere e scartati tutti gli altri, ricama e aggiunge particolari deliziosi. Anche nell’evento clou del film, il ricordo del prigioniero 46664, si passa per un dolore e un’umiliazione appena accennate agli occhi (prevale il non-visto) eppure ben coscienti per chi sappia capirle, ponendo invece in risalto, poeticamente, il riscatto che passa tramite gli splendidi versi di William Hernest Henley, autore del componimento “Invictus”, che dà il titolo al film. A livello di realizzazione “sportiva” poi si ottiene quanto di meglio si possa sperare, con degna menzione delle riprese dal campo, e persino Matt Damon, che sembrava sin qui abbonato alla parte del ragazzaccio tutta azione, dimostra un cuore sotto i muscoli, adattandosi perfettamente al clima di grancassa e di centellinata esaltazione che permea ogni gara all’Ellis Park di Johannesburg. Le gare di rugby sembrano vere, anche perché accanto alla fiction tornano documentari che hanno fatto la storia (su tutti lo spezzone delle quattro mete di Lomu, il migliore giocatore di sempre della palla ovale, nella semifinale in cui la Nuova Zelanda schiantò l’Inghilterra, ponendosi poi come unica antagonista, annunciata ma rispettata) e contribuiscono alla credibilità della telecamera. Stonate, forse, alcune esagerazioni: il cronometro che rimbomba nell’ultimo count-down, le risse con grugniti di ogni sorta a simboleggiare la furia di un popolo alla ricerca di una nuova età dell’oro, e alcuni picchi di retorica oggettivamente difficili da digerire. Ma, nell’epoca dei Caressa e dell’”incredibile” troppo poco credibile, Eastwood ha la capacità di apparire sincero e di non lanciare acuti di sentimentalismo casuali. Freeman fa storia a sé, elargendo tutto il carisma di Mandela in quella compassata serenità da leader maturo, che trasmuta le insicurezze in certezze, perché prima del potere mette il sacrificio attuato per arrivare alla meta (non solo sportiva). Una prova che giustifica il casting, non solo con la somiglianza fisica tra protagonista filmico e reale. Ultima annotazione, forse la più convincente: Eastwood, come sempre, ha un occhio di riguardo anche per i “cattivi”, per gli sconfitti, e crede nella forza delle redenzione più che della condanna incancellabile. Ecco perché questo film, tratto da una storia vera e sospinto nella sceneggiatura dal libro di Carlin “Ama il tuo nemico”, sembra scritto su misura proprio per i valori dell’ennesimo, magnificente (anche troppo) Clint.
Da non perdere: Uno dei passaggi più commoventi dell’intera pellicola: i quattro biglietti per il match finale regalati alla famiglia da capitan Pienaar. L’ultimo dei quali ad un ospite inatteso, in un simbolico omaggio ai tempi che cambiano.
VOTO: 8.5 - POSSENTE


