Di: James Cameron.
Con: Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Michelle Rodriguez.
Genere: Fantascienza (166’).
Commento: C’è voluto James Cameron per confermare, sotto la pompa magna del film più atteso di tutti i tempi, la preveggenza del saggio Vladimir Propp. Da un lato il regista americano che più ha speso (e tanto più ha guadagnato, meritando fino all’ultimo centesimo il proprio successo) nella storia del cinema mondiale, con tutte le complicazioni che questa etichetta comporta; dall’altro la linearità degli studi del formalista russo, capace di sventrare una fiaba e ricomporla in funzioni che sempre si ripetono. Perché questo, alla fine, è Avatar: una fiaba ultra-moderna, che dietro alla tecnologia del virtuale, nasconde una trama che di intricato non ha nulla. Ma non è questo un male, anzi. Casomai è solo il primo di una serie di splendidi controsensi, rintracciabili in quasi tre ore di viaggio mentale, dove la quarta parete dello schermo è al contempo padrina del sogno e matrigna fastidiosa (e vedremo perché). Un film hegeliano, che sfrutta la dialettica degli opposti per scaturire una magnifica sintesi, visibile su vari livelli. Partiamo dal plot: lineare, abbiamo detto, semplicissimo, che non significa banale. Tutto va, in fondo, come deve andare, senza bisogno di colpi di testa della sceneggiatura, perché è l’intera corrente del film a mantenere sospeso il voltaggio senza cali di tensione, e senza bisogno di picchi per riportare al centro l’attenzione. Semplice ma originale, nel senso che, all’infuori di un messaggio ecologista retorico come il Chaplin del Grande Dittatore, finalmente inventa qualcosa di nuovo e non il solito adattamento da libri, fumetti o storie vere. Il cinema ne aveva bisogno e Avatar esiste perché al cinema, solo lì, vive, Avatar esiste perché l’ha ideato, da zero, Cameron. Secondo paradosso: i personaggi. Sono flat characters, ai quali però ci s’affeziona: i turbamenti dell’animo sono accennati, ma sostanzialmente il ruolo di protagonista-antagonista non subisce scossoni. Spiriti quasi da cartoon. Attori, dunque, funzionali alla trama, e qui sta il bello: perché non è il movimento interiore degli Avatar o degli umani alienati dalla sete di potere a colpire, bensì la rete di rapporti che questi caratteri “piatti” creano. E’ l’interazione, il link appunto, a fruttare l’emozione: tra esseri viventi, natura compresa, in una visione panteistica del mondo. Poi viene il messaggio: il film più costoso di tutti i tempi svela una morale che è puro primitivismo, alla Rosseau. Modernismo complicatissimo per una poetica delle origini. La civiltà ha ammazzato l’uomo, e Cameron ce lo racconta, mettendo in scena, con le tecnologie più avanzate, il mondo più spoglio (di tecnologia) che esiste: Pandora è la splendida sintesi della difficoltà del “come” dire le cose opposta alla semplicità di un messaggio rivolto davvero alla massa. Come voleva Propp: non è la storia in sé a cambiare la sua forma, ma è il modo in cui la si racconta a garantirle successo. Ed è, in fondo, anche lo stesso controsenso del cinema: sfruttare modernità complicatissime, vere e proprie macchine infernali, per arrivare a tutti, non solo alla nicchia. Ossia: uno solo può fare il film, dio Creatore, che alla massa intende poi rivolgersi. Avatar prodotto commerciale dunque? Decisamente sì, perché nella sua “tuttologia” mette a segno anche critiche forti alla politica estera americana (immancabili e nemmeno tanto velate), che sfrutta il capitalismo per ammazzarlo di concetti anti-capitalistici. Un serpente che si morde la coda, e soprattutto ha il coraggio di auto-condannarsi, a quanto pare, sinceramente. Avatar, in sostanza, non cancella il cinema precedente, perché da esso attinge a piene mani, e lo risuscita in tutta la sua potenza visiva. Vedere per credere il passaggio del “discorso dell’eroe prima della battaglia”, formula classica, ma rivisitata nell’ottica della tolleranza, con la traduzione simultanea davanti alla folla oceanica: trovata che dà un senso ad un passaggio altrimenti vacuo e di pura verbosità. L’ultimo paradosso è un richiamo all’umanità: perché nel virtuale più paradisiaco possibile (scene corali da pelle d’oca e volo degli Ikran da fissare nella storia del cinema, con parecchia attenzione anche a curiosi dettagli), resta lo spazio per quell’ultimo fotogramma, che fotografa un primo piano a metà tra l’umano e la creatura eletta. Un’esperienza totalizzante, da vivere, che dà un senso al cinema e fa sembrare sprecata la comoda poltrona di casa con annesso dvd. La prova? Empiricamente non c’è, perché si vive sempre di sensazioni e giudizi soggettivi, ma due indizi ci permettiamo di fornirli: alla fine, pur dopo due ore e quaranta di film, non vi sentirete ancora sazi; e soprattutto, potere di un 3D finalmente ben sfruttato, otterrete più volte la consapevolezza della piccolezza dello schermo in sala, che quasi apparirà fuori luogo. Vi accorgerete, e maledirete, quel rettangolo di luce, e vorrete espanderlo all’infinito. E’ droga dell’onirismo, di un capolavoro destinato forse a fare discutere, ma capace di consentire, finalmente, anche alle nuove generazioni, di capire cosa provò chi, per la prima volta al cinema, vide nel 1977 Star Wars. Ora come allora, il cinema non potrà fare a meno di confrontarsi con una pietra miliare della fantascienza.
Da non perdere: Due parole, il resto lo lasciamo a voi: la scenografia.
VOTO: 10 – FLAUTO DI PAN